Sibelius nello specchio dei direttori d’orchestra italiani
di Alessandro Zignani
Il rapporto di Sibelius con la cultura musicale italiana fu sempre problematico. Bollato come epigono dei Romantici, gravato della stigmate su di lui gettata da Adorno, e prontamente ripresa dalla musicologia derivativa del ‘Belpaese’ in preda, nel secondo Dopoguerra, a un processo di modernizzazione forzata capace di errori e miopie, Sibelius non entrò mai nel repertorio comune delle nostre orchestre. Tuttavia, Toscanini lo frequentò, se non con assiduità con sincero interesse fin dai primi tempi della sua attività, a Bologna e a Torino, e De Sabata ne intuì il carattere “pagano”, “anarchico”, prima ancora di Furtwängler e di Koussevitsky. Nell’intervento si ripercorre la storia dell’interpretazione di Sibelius in Italia, non solo negli esiti fattuali, ma anche nelle dichiarazioni teoriche di musicisti come Gui e Gavazzeni, tra gli altri. La natura panteistica, archetipa, legata a una sensibilità nordica, del compositore finlandese, ne ha fatto un’icona, in Italia, dell’opposizione segreta ai modelli culturali imperanti lungo il periodo della sprovincializzazione ‘guidata’ cui il nostro paese fu soggetto nei complessi decenni della sua ricostruzione economica e sociale post-bellica. Si mette dunque l’accento non solo sulle adesioni, più o meno istintuali, di certi insigni direttori nostrani, ma anche sulle esclusioni, le avversioni ostentate, dei direttori più illustri fioriti e maturati nel contesto della cultura italiana. Interpretare, infatti, significa anche riflettere sui modelli formativi la propria identità, e Sibelius, il grande irregolare del sinfonismo moderno, costituisce un efficace specchio nel cui riflesso osservare ciò che è successo nella cultura musicale italiana degli scorsi decenni, tutta impegnata a trasformare il Melodramma in un “teatro delle idee” rispetto al quale l’ispirazione ‘antiumanistica’, immune al dramma umano, di Sibelius, non poteva che suonare a eresia.